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CERN: i dubbi atomici della Svizzera

«Il signor Tell Perrin Le chiederà nel corso della prossima sessione della Commissione degli affari esteri se lo stabilimento del laboratorio internazionale di fisica nucleare non implichi dei rischi per la Svizzera in generale e per Ginevra in particolare, vista l'impossibilità di dissociare gli scopi militari delle ricerche effettuate nel laboratorio da quelli industriali.»
Ciò è quanto scriveva nel 1952 un alto funzionario al ministro degli esteri Max Petitpierre. Da parte svizzera, la nascita dell’Organizzazione europea per la ricerca nucleare – CERN – e la costruzione di un laboratorio nei pressi di Ginevra fu motivo di dubbi e preoccupazioni. C’era il timore che il CERN venisse sfruttato per attività segrete di carattere militare. Ma la Svizzera riconobbe presto l’importanza di controbilanciare il predominio assoluto degli Stati uniti nel campo della ricerca nucleare e nell’autunno del 1954 aderì al CERN. Quella decisione diede impulso anche alla creazione, nel corpo diplomatico, della figura dell’attaché scientifico e successivamente della Segreteria di stato per la formazione, la ricerca e l’innovazione.

Ne parliamo con gli esperti del Gruppo di ricerca dei documenti diplomatici svizzeri (Dodis): Marc Perrenoud e Sacha Zala.

 

Il documento storico

Appunto del capo della Direzione delle organizzazioni internazionali, Pierre Micheli, al consigliere federale, Max Petitpierre (Dipartimento politico federale), Berna, 10 novembre 1952.

Originale in francese nella banca dati Dodis: dodis.ch/9296

 

Traduzione

Nota per il capo del Dipartimento

Il signor Tell Perrin Le chiederà nel corso della prossima sessione della Commissione degli affari esteri se lo stabilimento del laboratorio internazionale di fisica nucleare non implichi dei rischi per la Svizzera in generale e per Ginevra in particolare, vista l’impossibilità di dissociare gli scopi militari delle ricerche effettuate nel laboratorio da quelli industriali.

La questione è già stata esaminata quando si trattava di associare il nostro paese ai lavori preparatori intrapresi dalla fine dello scorso anno. Il messaggio del 4 aprile rileva espressamente che il futuro laboratorio sarà un organismo molto aperto e che per la sua stessa natura non si presterà ad attività segrete di carattere militare.

Questa idea è sviluppata nella relazione allegata del professor Scherrer, che Lei già conosce. Ne emerge con tutta la chiarezza desiderabile che il laboratorio si occuperà esclusivamente di ricerche di scienza pura. Senza dubbio i risultati acquisiti potranno trovare delle applicazioni industriali di carattere civile o militare, ma queste richiedono una messa a punto di tecniche industriali che non potrebbe essere effettuata all’interno di un laboratorio.

Il carattere intergovernativo del laboratorio fornisce delle garanzie quanto alla limitazione delle sue attività all’ambito delle scienze pure, ma la Convenzione che sarà elaborata in dicembre dovrebbe a quanto sembra contenere delle disposizioni per impedire che i lavori possano orientarsi verso un’altra direzione senza il consenso di tutti gli Stati contraenti e per garantire a ognuno di essi i mezzi necessari per esercitare un controllo effettivo.

A questo proposito la bozza di convenzione che ci è stata comunicata non è interamente soddisfacente. Prevede che gli emendamenti alla convenzione possano essere adottati con una maggioranza dei due terzi e che se comportano una modifica degli scopi fondamentali dell'organizzazione o dei nuovi obblighi per gli Stati membri, debbano ancora essere ratificati da due terzi degli Stati membri. Inoltre sarà possibile ritirarsi dall’organizzazione dando un preavviso di tre anni.

Questi tempi sono troppo lunghi per uno Stato che non fosse nelle condizioni di accettare un emendamento della convenzione. Tanto più che per lo Stato ospitante ritirarsi non risolverebbe il problema della presenza del laboratorio sul suo territorio. Un trasloco sarebbe un’operazione complicata e costosa. Ci sembra perciò che sarebbe nell’interesse dell’organizzazione e dello Stato ospitante affrontare subito e nel modo più chiaro possibile il problema delle loro relazioni reciproche.

Il conferimento di una sorta di veto allo Stato ospitante sarebbe senza dubbio irrealizzabile, ma si potrebbe arrivare allo stesso risultato esigendo l’unanimità degli Stati contraenti per l’adozione di emendamenti alla convenzione che comportano una modifica degli scopi fondamentali dell’organizzazione. Nel caso particolare la regola dell’unanimità non dovrebbe condurre a risultati spiacevoli, perché la modifica degli scopi fondamentali ci sembra contemplare necessariamente la costruzione di una nuova installazione. Non ci sarebbero inconvenienti gravi a costruirla in un altro Stato se lo Stato ospitante non desiderasse averla sul proprio territorio. La nuova installazione apparterrebbe allora a un gruppo di Stati che non sarebbe identico a quello dei membri del laboratorio principale.

 

I rischi ai quali pensa il signor Perrin sono apparentemente di due tipi:

a) I lavori effettuati nel laboratorio potrebbero presentare un pericolo per le regioni vicine, nel senso che l’enorme quantità di energia utilizzata potrebbe causare delle esplosioni, dei fenomeni di radioattività o altro. A nostra conoscenza nessun rischio di questo genere è stato segnalato per gli impianti dello stesso tipo che esistono già in numerosi paesi e in particolare anche a Zurigo. Del resto i tecnici che hanno preparato i piani del laboratorio non prevedrebbero di costruirlo vicino alla città se comportasse un pericolo qualsiasi;

b) il laboratorio potrebbe essere interessante per un belligerante, sia che questi desideri appropriarsene, sia che ritenga necessario distruggerlo. È vero che se tutta o una parte dell’Europa fosse implicata in una guerra, l’assemblea degli Stati contraenti dovrebbe decidere in che misura il laboratorio potrebbe proseguire le sue attività. Dovrebbe anche prendere delle misure per assicurare la protezione dei locali e delle apparecchiature. Se non potesse riunirsi in tempo utile, toccherebbe senza dubbio alla direzione di mettersi d’accordo con le autorità svizzere a questo proposito.

Sia come sia, si può pensare che in tempo di guerra gli Stati s’interessino meno alle ricerche di scienza pura che alla fabbricazione di armi nuove o più potenti e che la maggior parte degli scienziati che lavorano a Ginevra sarebbero richiamati nei loro rispettivi paesi. Anche se non si fermasse completamente, l’attività del laboratorio sarebbe comunque fortemente ridotta.

A queste condizioni non si vede l’interesse che un belligerante potrebbe avere nel distruggere impianti che non hanno valore per la condotta delle operazioni militari. Potrebbe invece desiderare appropriarsene in vista della fine delle ostilità? Sarebbe necessario che lo svolgimento delle operazioni lo mettesse nelle condizioni di farlo, ma in tal caso ci sarebbero fattori ben più importanti che potrebbero incitarlo a violare la nostra neutralità.

 

Per approfondire il tema:

Appunto del capo del Servizio delle Organizzazioni internazionali, Philippe Zutter, del 28 giugno 1950, dodis.ch/8649; verbale del Consiglio federale del 25 novembre 1952, dodis.ch/9295; appunto del capo del Servizio giuridico, Rudolf Bindschedler, per il capo della Direzione delle organizzazioni internazionali, Pierre Micheli, del 12 dicembre 1952, dodis.ch/9294.

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