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E-dossiers

Bombardamento de La Moneda (palazzo presidenziale)

Il colpo di Stato di Pinochet. La fine violenta della «via cilena al socialismo»

Dalla fine degli anni Sessanta, il Cile è attraversato da un teso processo democratico, come risulta dalle informazioni fornite dall’ambasciatore svizzero a Santiago (dodis.ch/33920). Il 4 settembre 1970, Salvador Allende vince le elezioni popolari e viene confermato presidente il 24 ottobre. Per l’ambasciatore, il candidato deve la sua vittoria a un «losco affare» tra i partiti di sinistra (dodis.ch/66500). L’esperimento Allende Durante i quasi tre anni di presidenza di Allende, il primo presidente salito al potere democraticamente con un programma di ispirazione marxista, il Cile ha cercato di proporre «un nuovo cammino verso il socialismo». Ciò comportò il rafforzamento della politica di cilenizzazione dell’economia, creando una minaccia di nazionalizzazione per le grandi aziende straniere. Berna riteneva che per Nestlé, ad esempio, «il rischio, che è certamente reale, rimane» (dodis.ch/36557). Austerità dei creditori Ma presto il Cile è stato messo sotto pressione dai creditori internazionali e «si è trovato nelle peggiori difficoltà» per pagare i propri debiti esteri (dodis.ch/36452). Per la Svizzera, sarebbero state le politiche perseguite dalla sinistra a portare il Paese a questa situazione catastrofica. Al Club di Parigi, la Svizzera ha quindi seguito l’opinione «essenzialmente influenzata dai principali Paesi creditori, ossia Stati Uniti, Germania e Regno Unito» e ha votato a favore della rinegoziazione del debito a condizione di un programma d’austerità (dodis.ch/36548). Una strategia di tensione Tuttavia, mentre una parte della popolazione godeva ora di significativi progressi sociali, le élite economiche cilene stavano perdendo gran parte del loro potere. L’escalation di violenza, sostenuta in parte dalla CIA, creò una tensione estrema nel Paese. Le «convulsioni di cui soffriva la capitale cilena» portarono addirittura al primo tentativo di putsch il 29 giugno 1973 (dodis.ch/66949). Il colpo di Stato dell’11 settembre In risposta a questi eventi, il governo dichiarò lo stato di emergenza. Da quel momento in poi, la situazione non fece che peggiorare. L’11 settembre 1973, un gruppo di generali guidati da Augusto Pinochet dichiarò di voler prendere il controllo del Paese per evitare una guerra civile. Il colpo di Stato, che portò al suicidio di Allende, fu rapidamente seguito da una feroce repressione di ampie fasce della popolazione (dodis.ch/38247). Tuttavia, il Consiglio federale si rifiutò di condannare il colpo di Stato in quanto, così l’argomento, «la Svizzera non riconosce i governi, ma solo gli Stati» (dodis.ch/66950). Ambasciatore Masset Il ministro degli esteri svizzero, il consigliere federale Pierre Graber, criticò l’atteggiamento ostile dell’ambasciatore svizzero a Santiago, Charles Masset, nei confronti del governo di Allende e giudicò che questa ostilità aveva raggiunto il suo apice nel rapporto che aveva inviato dopo il colpo di Stato (dodis.ch/38247). Accecato dal suo anticomunismo, l’ambasciatore rimase una figura centrale e problematica nelle relazioni tra Svizzera e Cile durante questo periodo. Infatti era convinto di trovarsi di fronte «ad un processo rivoluzionario volto a instaurare una dittatura marxista» e screditava continuamente la politica cilena in ogni suo rapporto a Berna (dodis.ch/38246). L’esilio di un popolo Contrariamente a quanto promesso dai generali al momento del colpo di Stato, la giunta rimase al potere. La repressione organizzata di ogni forma di resistenza alla dittatura causò un esodo di massa della popolazione cilena. Per giustificare la sua mancanza di entusiasmo umanitario nei confronti di coloro che cercavano rifugio presso l’Ambasciata, Masset si lamentò che «la presenza degli asilanti complicava notevolmente la vita del capo missione, e ancor più quella di sua moglie» (dodis.ch/38252). In Svizzera, invece, le ONG, la società civile e personalità come lo scrittore Max Frisch si mobilitarono per accogliere i rifugiati dal Cile (dodis.ch/C2560). Interessi stranieri La giunta di Pinochet godette presto di agevolazioni a livello internazionale alle quali il regime di Allende non aveva avuto accesso. Pure la Svizzera agì in questa direzione e concesse una rinegoziazione del debito ben più favorevole (dodis.ch/38276). A partire dalla seconda metà degli anni Settanta, le relazioni economiche bilaterali conobbero un vero e proprio boom. L’ambasciata si rallegrava che «si stanno attualmente aprendo eccellenti opportunità di investimento». Questa attitudine sarà proseguita fino alla fine della dittatura (dodis.ch/51266). Per saperne di più sul colpo di Stato: dodis.ch/C2544 Per saperne di più sulla questione dell’asilo: dodis.ch/C2560
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Firmatari del Trattato di Losanna, 24 luglio 1923, © Francis de Jongh, BCUL/Iconopôle, Photo Elysée

Il Trattato di Losanna

Ultima delle grandi conferenze di pace che hanno ridisegnato la mappa politica del mondo dopo la Prima guerra mondiale, la Conferenza di Losanna vide centinaia di diplomatici, giornalisti e attivisti accorrere sulle rive del lago Lemano. A partire dal novembre 1922, per lunghi mesi venne negoziato il futuro del Medio Oriente. Fin dall’inizio, la situazione si presentò incandescente ed infatti la firma del trattato il 24 luglio 1923 non portò la pace sperata.  Revisione del Trattato di Sèvres  All’origine, i vincitori della Prima guerra mondiale, durante la Conferenza di pace di Parigi, avevano sperato di gestire le rovine dell’Impero ottomano attraverso il Trattato di Sèvres del 10 agosto 1920. Dalle macerie dell’Impero, Francia e Gran Bretagna si aggiudicarono le parti di loro gradimento, lasciando però intravedere alle popolazioni armene, curde, turche e greche la prospettiva della creazione di un proprio Stato nazionale. Di fronte a questo saccheggio, i gruppi nazionalisti turchi, guidati da Mustafa Kemal Ataturk, rifiutarono il trattato di pace di Sèvres riprendendo la guerra contro il Sultano e la Grecia. A questo punto divenne evidente che la pace sarebbe stata «un progetto di lungo cammino» (dodis.ch/44692).  Nascita dello Stato turco  Dopo la sconfitta dell’esercito greco nel 1922, i firmatari del trattato di Sèvres si videro costretti a tornare al tavolo delle negoziazioni. Questa volta, Gran Bretagna, Francia e Italia, accompagnate dal Giappone, firmarono con l’emissario di Ankara un trattato che includeva ora anche la Romania, i regni di Grecia, di Bulgaria e dei Serbi, Croati, e Sloveni. La nuova Turchia di Ataturk ottenne così il suo primo riconoscimento internazionale.  La scelta di Losanna: tra neutralità...  Inizialmente, le parti pensavano di incontrarsi a Smirne, ma la Turchia non riuscì a convincere le potenze occidentali. L’idea di una città svizzera – Losanna o Lugano – emerse gradualmente tra le grandi capitali occidentali (dodis.ch/65867). La neutralità della Svizzera giocò a loro favore quale argomento importante, così come la tradizione d’ospitalità per eventi internazionali. Il 27 ottobre 1922, appena due settimane prima dell’inizio della Conferenza, il Consiglio federale fu contattato dall’Ambasciata francese a Berna per ottenre il suo consenso (dodis.ch/66193). I preparativi per la Conferenza a Losanna furono dunque molto affrettati (dodis.ch/65868).  ...e gli interessi finanziari svizzeri  Per la Svizzera, l’interesse a ospitare la Conferenza non era geopolitico o strategico, ma piuttosto turistico e legato ad interessi privati. La Banca Ferroviaria Orientale di Zurigo, infatti, che aveva investito e finanziato la costruzione di diverse compagnie ferroviarie in Anatolia e Asia Minore, temeva che i propri interessi, con l’attuazione del Trattato di Sèvres, non sarebbero stati correttamente rappresentati e difesi (dodis.ch/C2529).  Le conseguenze per la Svizzera  Il 17 novembre 1922, il Consiglio federale decise di delegare al Presidente della Confederazione il discorso d’apertura della Conferenza (dodis.ch/44876). Durante i nove mesi delle trattative, la diplomazia svizzera assunse un profilo molto basso. Pur interessandosi alla questione delle capitolazioni (dodis.ch/44884 e dodis.ch/65537) ed alla possibilità di stringere legami economici con il nuovo regime di Ankara (dodis.ch/65861 e dodis.ch/44936), il coinvolgimento diretto rimase assai modesto.  Il caso Conradi  Alla fine, fu un fatto di sangue avvenuto a margine della Conferenza, a fare scalpore in Svizzera e all’estero, il cosiddetto «affare Conradi». Moritz Conradi, figlio di una famiglia grigionese emigrata in Russia, che prima di tornare in Svizzera aveva anche servito nell’Armata Bianca, il 10 maggio 1923, all’Hôtel Cécil di Losanna, uccise con un colpo di pistola il diplomatico sovietico Vatslav Vorovski (dodis.ch/T1481 e e-dossier). Al processo, Conradi venne assolto e ciò ebbe un’eco maggiore della Conferenza stessa. Per la Svizzera, questa sentenza, evidentemente politica, danneggiò definitivamente i già pessimi rapporti con l’URSS.  La firma al Palazzo di Rumine  Il trattato fu infine firmato a Losanna al Palais de Rumine il 24 luglio 1923, un mese dopo l’omicidio di Vorovski. Indirettamente, attraverso questo trattato, la Svizzera riconobbe lo Stato turco moderno, così come l’Egitto (dodis.ch/44959), mentre tutte le altre aspirazioni d’indipendenza nazionale ventilate a Sevrès furono accantonate dal nuovo trattato. Ironicamente, in seguito alla completa presa di potere da parte dei kemalisti in Turchia, il Sultano dell’Impero Ottomano cercò rifugio in Svizzera (dodis.ch/44967). Le fonti iconografiche che illustrano questo articolo sono tratte dalla mostra Frontières del Musée Historique Lausanne (MHL), visitabile da oggi fino all'8 ottobre 2023.
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Ponte sul Reno Sevelen-Vaduz

Il trattato doganale con il Liechtenstein

Esattamente 100 anni fa, il più piccolo stato limitrofo della Svizzera segnò il suo destino. Incastrato tra la Confederazione elvetica e l’Austria, il Principato del Liechtenstein si rivolse per primo alla Svizzera il 29 marzo 1923, firmando il Trattato d’unione doganale. «Ciò gettò le basi per le strette relazioni che i due Stati intrattengono tutt’ora», spiega Sacha Zala, direttore del centro di ricerca Dodis. Il distacco dall’Austria Il trattato trova le sue radici nella dissoluzione dell’Austria-Ungheria alla fine della Prima guerra mondiale. Il declino dell’Impero asburgico segnò anche la fine dell’unione doganale tra la duplice monarchia e il Principato del Liechtenstein. Nel corso di un riorientamento verso l’Occidente, il principe Carlo del Liechtenstein informò la Svizzera della sua intenzione già nel maggio del 1919: «Provvedete affinché il Principato concluda con la Confederazione quegli accordi che ha finora stipulato con l’Austria (dogane, servizi postali, ecc.)». Inoltre, come primo passo, auspicava l’accreditamento di un inviato diplomatico a Berna, così come la rappresentanza del Principato da parte della Svizzera nei confronti dell’estero (dodis.ch/44151). Uno svizzero come rappresentante del Liechtenstein a Berna? Il principe Carlo del Liechtenstein propose il bernese Emil Beck come incaricato d’affari del Liechtenstein a Berna, ponendo alle autorità svizzere questa spinosa domanda: «Possiamo accettare un rappresentante diplomatico che sia nostro connazionale?» Tuttavia esistevano già dei precedenti, ad esempio con il Guatemala (dodis.ch/44154). Il Consiglio federale incaricò inoltre le legazioni svizzere a Roma, Parigi, Londra e Berlino d’informarsi presso i rispettivi governi su quale fosse la loro opinione sulla possibile rappresentanza diplomatica del Liechtenstein attraverso la Svizzera (dodis.ch/44323). Nel novembre 1919 la decisione fu presa: «Tutte le risposte sono state favorevoli» (dodis.ch/44357). La questione aperta del Vorarlberg La Svizzera esitò sulla forma del trattato doganale, almeno fino a quando non fosse deciso se il vicino Vorarlberg volesse associarsi alla Svizzera. «Un’unione doganale con il Principato del Liechtenstein [è] concepibile, solo se anche il Vorarlberg dovesse aderire alla Svizzera», scrisse il direttore delle dogane svizzere al presidente della Confederazione Calonder nel maggio 1919 (dodis.ch/44194). Per gli osservatori internazionali, al contrario, era chiaro: «Se il Vorarlberg rimane parte della Repubblica dell’Austria, nulla impedisce al Liechtenstein di mantenere la sua posizione precedente. Sarebbe uno Stato sovrano». Infatti, se il Vorarlberg dovesse passare alla Svizzera, il Principato si troverebbe in una situazione di dipendenza, paragonabile a quella di San Marino nei confronti dell’Italia: «Il Liechtenstein cesserebbe ovviamente di avere qualsiasi possibilità di relazioni indipendenti con altri Stati». (dodis.ch/55495) L’inviato svizzero a Vienna valutava la situazione in modo simile: «Se il Vorarlberg diventa svizzero, lo diventerà certamente anche il Liechtenstein» (dodis.ch/44167). «Una questione puramente discrezionale» Dopo che la questione del Vorarlberg diventò superflua in seguito al mantenimento in Austria, i negoziati cominciarono a prendere forma con il nuovo trattato postale tra il Principato del Liechtenstein e la Svizzera del 1921. In un rapporto, il Dipartimento delle Finanze e delle Dogane si espresse a favore dell’apertura dei negoziati: I «presupposti geografici» sarebbero soddisfatti e «l’affinità della popolazione [...] nei costumi e nelle abitudini» era già data (dodis.ch/44700). Il Consiglio federale rimase più cauto: per la Svizzera, l’unione doganale non avrebbe portato «né vantaggi considerevoli, né svantaggi significativi. Si trattava quindi di una questione puramente discrezionale, se la Svizzera volesse rendere un servizio al piccolo Paese oppure no». In ogni caso, anni dopo la prima richiesta del Liechtenstein, era giunto il momento di «prendere posizione sulla questione» (dodis.ch/44800). Infine, il 29 marzo 1923, fu solennemente firmato il trattato di unione doganale tra la Svizzera e il Liechtenstein. (dodis.ch/63042) Strette relazioni messe alla prova Le relazioni tra la Svizzera e il Principato del Liechtenstein sono state più volte messe alla prova. Ad esempio, durante la cosiddetta «Märzkrise» del 1938, quando le truppe tedesche occuparono l’Austria (dodis.ch/46503), o in relazione al fatto che i prodotti del Liechtenstein venissero ripetutamente definiti «svizzeri» (dodis.ch/62590). Le controversie sulla caserma nei pressi del confine a St. Luzisteig (dodis.ch/62584) si riproposero con regolarità – l’erroneo bombardamento svizzero del Liechtenstein provocò persino «manifestazioni antimperialiste» negli Stati Uniti nel 1968 (dodis.ch/36177). Infine, gli scandali finanziari e bancari degli anni Settanta portarono a complicazioni politiche (dodis.ch/62577) e, non da ultimo, alla crescente emancipazione del Principato in merito alla politica estera: il Liechtenstein aderì all’ONU già nel 1990 (dodis.ch/C1854) e, mentre la Svizzera rifiutò di misura l’adesione allo Spazio economico europeo nel dicembre 1992, gli elettori del Liechtenstein si pronunciarono a favore solo pochi giorni più tardi (dodis.ch/C2487). «Intreccio di stretto vicinato» «Allo stesso tempo, tuttavia, furono proprio queste crisi a offrire l’opportunità di approfondire ulteriormente questo rapporto particolare», sottolinea Sacha Zala. La «Märzkrise» del 1938 portò ad un’estensione delle norme di polizia degli stranieri dalla Svizzera al Liechtenstein (dodis.ch/47170), nel 1954 venne firmato un accordo sull’AVS (dodis.ch/10605), inoltre ci fu una collaborazione più stretta nel campo dello sport (dodis.ch/60472), e nel 1980 i due vicini conclusero un nuovo trattato monetario (dodis.ch/62564). «Il trattato doganale del 1923», riassume Zala, «gettò le basi per quelli che oggi sono cento anni di stretti legami di vicinato.»
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L’ambasciatore Jolles e il consigliere federale Brugger (da sinistra) firmano l’Accordo di libero scambio con la CEE il 22 luglio 1972, dodis.ch/50546

Il Accordo di libero scambio con la CEE

Il 1972, secondo l’allora redazione della «Weltwoche», avrebbe rappresentato una «pietra miliare della storia», che per il suo significato sarebbe proceduta sulla stessa scia del patto federale del 1291, della battaglia di Marignano, della pace di Vestfalia, del Congresso di Vienna e della fondazione stessa della Confederazione nel 1848 (dodis.ch/36211). Quello che il settimanale zurighese euforicamente catapultava nell’olimpo della storia svizzera era l’Accordo di libero scambio con la Comunità Economica Europea (CEE) che il consigliere federale Ernst Brugger aveva firmato a Bruxelles 50 anni fa, il 22 luglio 1972. Nel suo discorso alla cerimonia Brugger sottolineò che l’accordo rappresentava «un passo significativo del nostro tradizionale impegno a contribuire all’integrazione del nostro continente per quanto ci sia possibile fare entro i limiti dateci dalla democrazia diretta, dalle competenze parlamentari e dalla politica estera basata sulla neutralità» (dodis.ch/36209). Le «relazioni particolari» della CEE con i «non candidati» «Quando nel 1969 la Francia ritirò il suo veto contro l’adesione della Gran Bretagna, si aprì la strada ad un primo ingrandimento della CEE» afferma Sacha Zala, direttore del centro di ricerca Dodis. Parallelamente ai negoziati di adesione con il Regno Unito, la Danimarca, l’Irlanda e la Norvegia, Bruxelles condusse negoziati per «l’instaurazione di relazioni particolari» con i «non candidati» membri dell’AELS, cioè Finlandia, Islanda, Austria, Portogallo, Svezia e Svizzera. Una frammentazione economica dell’Europa occidentale andava evitata, ma al principio dei colloqui esplorativi non era ancora chiaro fino a che punto questi Stati avrebbero dovuto contribuire al progetto di integrazione europeo. Per i negoziatori svizzeri la «gamma delle possibili soluzioni con la CEE» andava da «una soluzione vicina all’adesione» fino ad un «consueto contratto commerciale» (dodis.ch/36157). Una collaborazione istituzionale della Svizzera? Nella sua dichiarazione di apertura dei colloqui nel novembre del 1970 a Bruxelles, il consigliere federale Brugger sottolineò il già «alto grado di interdipendenza economica esistente tra la Svizzera e la CEE», in particolare negli scambi commerciali, dove la percentuale del 75 % delle importazioni svizzere e del 60 % delle esportazioni «non viene raggiunta da nessun altro Stato terzo» (dodis.ch/36161). Il capo-negoziatore dell’accordo, Paul Jolles, direttore della Divisone del Commercio del Dipartimento federale dell’economia pubblica, sapeva che sia la Svizzera, sia la Comunità Europea (CE) si stavano inoltrando in un territorio inesplorato. «Il chiarimento di nuove modalità di collaborazione appropriate richiede fantasia creativa ed il tempo necessario», formulò quasi fosse un chiaroveggente l’ambasciatore Jolles. L’ardua missione, infatti, 50 anni dopo era ancora irrisolta: «Il compito più difficile sarà senza dubbio dare forma alla collaborazione istituzionale della Svizzera nel processo di integrazione» (dodis.ch/35774). I risultati dell’accordo Alla fine, una soluzione istituzionale esaustiva non fu raggiunta. Il consigliere federale Brugger firmò il 22 luglio 1972 un accordo nel quale «non era prevista assolutamente nessuna partecipazione all’integrazione politica dell’Europa». In compenso il contratto liberò dai dazi vigenti più del 90 % delle esportazioni svizzere nella CEE, in particolare i prodotti industriali, e fissò delle regole della concorrenza (dodis.ch/36210). Una condizione preliminare della CEE era stata la «regolamentazione del delicato problema dello ‹Swiss made›», che fu possibile risolvere due giorni prima nell’accordo sui prodotti dell’industria orologiera (dodis.ch/35586). Benché sia mancata una «regolamentazione dei problemi della seconda generazione (per esempio nei campi delle politiche monetaria, energetica, ambientale e dei trasporti)», come riassunse il negoziatore Jolles, fu comunque possibile «istituire un rapporto duraturo con possibilità di consultazione» con la CEE (dodis.ch/34608). Uno sviluppo irreversibile verso l’Europa Nel corso dei trattati la Svizzera aveva insistito con l’argomento della minaccia di una bocciatura al momento del referendum popolare, mettendo così sotto pressione la CEE. Tuttavia, non fu solo per salvare la faccia nei confronti dell’estero che il Consiglio federale sottopose l’accordo di libero scambio al referendum obbligatorio. «Anche la nostra collaborazione europea viene consolidata a lungo termine con questo contratto», questa l’arringa del ministro dell’Economia Brugger davanti al Consiglio federale, «e ci leghiamo economicamente in maniera salda – anche se ‹solo› attraverso un accordo di libero scambio – pur sempre con una comunità di più di 300 milioni di abitanti». L’opzione di una disdetta dall’accordo «per ragioni pratiche difficilmente potrà venir presa». Il ministro degli Interni Hans-Peter Tschudi aggiunse nel dibattito del Consiglio federale «che l’accordo con la CEE dava l’inizio ad uno sviluppo praticamente irreversibile del nostro paese verso l’Europa» (dodis.ch/35778). Diritto popolare e politica estera La votazione sull’Accordo di libero scambio fu anche il preludio della pianificata espansione dei diritti popolari nell’ambito di un riordinamento del referendum sui trattati internazionali. Le decisioni in politica estera dipendevano sempre maggiormente dall’approvazione dei cittadini. Il Consiglio federale aveva perciò deciso sin dall’inizio dei negoziati di creare attraverso una rafforzata politica di comunicazione «un clima di interesse, apertura e comprensione presso la grande massa per i grandi problemi che riguardano il destino del paese […] non come opera propagandistica, bensì essenzialmente didattica» (dodis.ch/35368). È tuttavia eclatante, a questo proposito, una nota dell’Ufficio dell’integrazione responsabile per le relazioni con Bruxelles dal titolo «Ciò che nell’informare la popolazione sull’accordo Svizzera-CEE non va detto» (dodis.ch/36230). Il popolo e i cantoni accettarono infine l’Accordo di libero scambio il 3 dicembre 1972 con il 72,5 % dei voti. «Da allora la politica europea del Consiglio federale non ha mai più ottenuto una tale alta legittimazione», riassume il direttore di Dodis, Sacha Zala. «Popolo e cantoni impedirono, infatti, un’ulteriore integrazione della Svizzera in Europa con le votazioni sull’accordo sul SEE nel dicembre del 1992».  
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Da sinistra: I presidenti Šuškevič (Bielorussia), Karimov (Uzbekistan) e Nazarbaev (Kazakistan) con il presidente Felber durante un ricevimento a Davos, il 1° febbraio 1992. Fonte: dodis.ch/60614.

La dissoluzione dell’URSS e il riconoscimento degli stati post-sovietici

Esattamente 30 anni fa, il 23 dicembre 1991, la Svizzera fu uno dei primi paesi a riconoscere gli Stati post-sovietici. «Insieme al riconoscimento anticipato della Repubblica popolare cinese il 17 gennaio 1950, questa fu una delle poche anomalie dell’abituale prudenza nella politica di riconoscimento della Svizzera», spiega Sacha Zala, direttore del Centro di ricerca Documenti diplomatici svizzeri (Dodis). Seguendo il principio quasi sacrosanto del «non essere né tra i primi, né tra gli ultimi», il Dipartimento federale degli affari esteri (DFAE) generalmente aveva sempre tenuto un profilo basso nelle questioni di riconoscimento. «Tanto più sorprendente», afferma Thomas Bürgisser, responsabile redazionale del volume di prossima pubblicazione dei Documenti diplomatici svizzeri sull’anno 1991, «che la Svizzera agì senza esitazione quel 23 dicembre e fu quindi tra i primissimi Stati a riconoscere l’indipendenza delle ex repubbliche sovietiche». Infatti, fino al 1991, l’URSS era costituita da 15 repubbliche federate che, de jure, godevano di ampi diritti di sovranità, ma de facto erano subordinate al potere centrale di Mosca. La fase iniziale nei paesi baltici La caduta dell'impero sovietico nel 1991 avvenne ad una velocità vertiginosa. Iniziò con le repubbliche baltiche dell’Estonia, Lettonia e Lituania, i cui sforzi per ottenere l’indipendenza furono violentemente contrastati, in particolare nel non riuscito colpo di stato in agosto, a Mosca (dodis.ch/C1951). Il 28 agosto, il Presidente della Confederazione Flavio Cotti poteva informare i presidenti dei tre Stati della decisione del Consiglio federale «che la Svizzera stabilirà relazioni diplomatiche complete con le tre repubbliche baltiche indipendenti» (dodis.ch/C2196). Dal 3 al 6 settembre 1991, una delegazione guidata dall’ambasciatore Jenö Staehelin, capo della Divisione politica I del DFAE, intraprese un viaggio a Tallinn, Riga e Vilnius per formalizzare la ripresa delle relazioni diplomatiche attraverso uno scambio di lettere (dodis.ch/57645). Creazione della Comunità degli Stati indipendenti Il processo di erosione dell’impero sovietico continuò senza sosta. L’8 dicembre 1991, i presidenti della Russia, Bielorussia e Ucraina fondarono la «Comunità degli Stati Indipendenti» (CSI) nel contesto degli accordi di Minsk. In questa occasione, dichiararono seduta stante che l’Unione Sovietica «come soggetto del diritto internazionale e come realtà geopolitica cessa di esistere» (dodis.ch/60365). Poco dopo, il DFAE deliberò sulla posizione ufficiale della Svizzera. Nella riunione, così le discussioni, «ha prevalso l’opinione che non sia più necessario aspettare il riconoscimento, vista l’evidenza dell’ormai avvenuto raggiungimento del punto di non ritorno. È tuttavia necessario riconoscere non soltanto le repubbliche slave ma anche quelle che stanno lottando per essere riconosciute, nella misura in cui il riconoscimento non sia soggetto a controversie» (dodis.ch/58737). Conferenza telefonica prima di Natale Il 21 dicembre, attraverso la dichiarazione di Alma-Ata (Almaty), quasi tutte le restanti repubbliche dell’URSS si aggregarono alla CSI . Sembrava fosse stato raggiunto il point of no return. Alle ore 13.30 di lunedì 23 dicembre, durante una conferenza telefonica, il Consiglio federale discusse la proposta del DFAE trasmessa a mezzogiorno dalla Cancelleria federale via fax, riguardo al riconoscimento ufficiale e l’instaurazione di relazioni diplomatiche con la Federazione Russa e le repubbliche dell’Ucraina, Bielorussia, Kazakistan, Moldavia, Georgia, Armenia, Azerbaigian, Uzbekistan, Turkmenistan, Tagikistan e Kirghizistan (dodis.ch/57514). «È importante che la Svizzera stabilisca al più presto dei contatti con le nuove repubbliche», dichiarò il Consigliere federale Jean-Pascal Delamuraz alla richiesta del capo del DFAE René Felber (dodis.ch/57766). Dopo 15 minuti di deliberazione, il Consiglio federale prese la sua ultima decisione dell’anno, la numero 2518. Gratitudine per il riconoscimento precoce La sera stessa, il DFAE notificò il riconoscimento ai presidenti Ter-Petrosyan, Mütallibov, Šuškevič, Nazarbaev, Akayev, Snegur, El’cin, Nabiev, Nyýazow, Kravčuk e Karimov per telex tramite l’ambasciata svizzera a Mosca (dodis.ch/C1950). Il Consiglio federale aspettò «per ragioni pratiche» prima di notificare il riconoscimento della Georgia, che non aveva aderito alla CSI e la cui situazione politica interna sembrava confusa. Il riconoscimento precoce avrebbe dato i suoi frutti: «Durante i miei viaggi nelle repubbliche post-URSS», notò l’ambasciatore svizzero a Mosca, Jean-Pierre Ritter, «sono rimasto impressionato dalla soddisfazione e persino dalla gratitudine che ogni volta ci viene dimostrata per essere stati i primi in Europa occidentale a notificare il nostro riconoscimento delle nuove indipendenze e i primi a presentarsi sul posto per formalizzare lo stabilimento delle relazioni» (dodis.ch/59825). Instaurazione delle relazioni diplomatiche  La continuità delle relazioni con la Federazione Russa come successore legale dell’URSS fu stabilita già nel gennaio 1992, tramite un semplice scambio di note tra Mosca e Berna (dodis.ch/61322 e dodis.ch/61319). L’ambasciatore Ritter si recò successivamente a Erewan e Baku come inviato speciale al fine di stabilire relazioni diplomatiche con l’Armenia e l’Azerbaigian (dodis.ch/61278e dodis.ch/61241). All’inizio di febbraio, il DFAE inviò il capo della Direzione degli affari amministrativi e del servizio estero, l’ambasciatore Johann Bucher, in missione speciale a Kiev e Minsk per formalizzare le relazioni con l’Ucraina e la Bielorussia (dodis.ch/60848). In giugno, l’ambasciatore Ritter si recò nuovamente ad Alma-Ata per l’instaurazione delle relazioni con il Kazakistan (dodis.ch/60853). Il 23 marzo 1992, dopo che Berna notificò il riconoscimento della Georgia – che come le tre repubbliche baltiche non aderì alla CSI (dodis.ch/61323) –, l’ambasciatore Ritter visitò anche Tbilisi in giugno, dove stabilì relazioni e presentò le sue credenziali al nuovo presidente Eduard Shevardnadze (dodis.ch/61191). Infine, in luglio, fu la volta di Ashgabat (Turkmenistan) e Tashkent (Uzbekistan) (dodis.ch/61106). Contatti presidenziali  La partecipazione di delegazioni di alto livello degli Stati della CSI al Forum economico mondiale (WEF) di Davos offrì al ministro degli esteri Felber, Presidente della Confederazione nel 1992, la possibilità d’incontrare i presidenti Ter-Petrosyan (Armenia), Mütallibov (Azerbaigian), Šuškevič (Bielorussia), Nazarbaev (Kazakistan), Snegur (Moldavia) e Karimov (Uzbekistan), nonché l’occasione per uno scambio di vedute approfondito con il presidente ucraino Leonid Kravčuk (dodis.ch/61277 e dodis.ch/61354). In febbraio fu pure deciso di stabilire relazioni diplomatiche tra la Svizzera e il Kirghizistan (dodis.ch/60852), in occasione di una visita del presidente Askar Akayev al Presidente della Confederazione Felber a Berna, organizzata con breve preavviso. Il 2 settembre 1992, a Berna, ci fu uno scambio di lettere tra Felber e il presidente moldavo Mircea Snegur, al fine di stabilire delle relazioni diplomatiche (dodis.ch/61317). Varie missioni e discordie La presa di contatto con gli Stati post-sovietici hanno avuto luogo attraverso diversi canali. In aprile e luglio per esempio, le delegazioni di alto livello dell’Amministrazione federale delle finanze visitarono i paesi della CSI. In vista dell’adozione del messaggio complementare del Consiglio federale sul proseguimento della cooperazione rafforzata con gli Stati dell’Europa centrale e orientale (dodis.ch/59002), che prevedeva un’estensione dei crediti allo sviluppo alla CSI, in agosto e settembre, il DFAE ordinò due missioni in tutte le repubbliche dell’Asia centrale e della Transcaucasia. La prima fu nuovamente guidata dall’ambasciatore Staehelin, mentre la seconda dal suo vice, Daniel Woker. Le delegazioni comprendevano anche rappresentanti dell’Ufficio federale per gli affari economici esteri (dodis.ch/61252 e dodis.ch/61250). Il coordinamento tra le varie missioni non fu sempre facile e portò talvolta a disaccordi e conflitti di competenze (dodis.ch/58143, dodis.ch/60836 e dodis.ch/60846). «Helvetistan» e Heidi Tagliavini «Il vivo interesse delle autorità svizzere apre la prospettiva a due sviluppi», così afferma lo storico presso il centro di ricerca Dodis Thomas Bürgisser. Da un lato, dopo l’adesione alle istituzioni di Bretton Woods, la Svizzera voleva assicurarsi un posto nel consiglio esecutivo della Banca mondiale e del Fondo monetario e, a questo effetto, dovette creare un proprio gruppo di voto. Turkmenistan, Kirghizistan, Uzbekistan e Azerbaigian furono, insieme alla Polonia, inseriti in questo progetto; più tardi anche Kazakistan e Tagikistan si unirono al cosiddetto «Gruppo Helvetistan». «Grazie al suo impegno in Asia centrale, la Svizzera poté assicurarsi un’influenza in queste organizzazioni finanziarie internazionali», prosegue Bürgisser. Va anche notato che l’ambasciatore Ritter fu accompagnato in ogni suo viaggio da una collaboratrice che parlava perfettamente il russo. Alla giovane diplomatica, Heidi Tagliavini, in seguito sono state più volte affidate delicate missioni in regioni di conflitto: ad esempio nel 1995 con il gruppo di assistenza OSCE in Cecenia, come rappresentante speciale dell’UE per indagare sulle cause della guerra tra Russia e Georgia nel 2008, o ancora nel 2014 come rappresentante dell’OSCE in Ucraina.
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Manifestazione contro il vescovo Wolfgang Haas il 17 giugno 1990 a Coira. (Keystone-SDA, Keystone, 477127 (RM))

L’avvio di relazioni con il Vaticano

«Al fine di ottimizzare la rappresentanza degli interessi svizzeri nei confronti del Vaticano, vi proponiamo di nominare un ambasciatore in missione speciale presso la Santa Sede per un periodo limitato fino al 1992, e di conferire al capo della Divisione politica I il titolo di ambasciatore speciale» (dodis.ch/57567).  «Questa semplice richiesta del DFAE, approvata dal Consiglio federale esattamente 30 anni fa – il 30 ottobre 1991 – ha segnato un cambiamento epocale nelle relazioni diplomatiche tra la Svizzera e il Vaticano», spiega il direttore del centro di ricerca Dodis, Sacha Zala. «È la prima volta che la Svizzera nomina un rappresentante diplomatico presso la Santa Sede». Questo provvedimento succede a una lunga e talvolta tumultuosa storia di relazioni tra la Svizzera e il Vaticano.  Da una situazione avanguardista alla rottura delle relazioni diplomatiche  Già nel 1586, la nunziatura permanente, ossia la rappresentanza diplomatica del Vaticano, si stabilì a Lucerna. Questo fece del nunzio apostolico – dopo l’ambasciatore della Francia che già risiedeva a Soletta dal 1522 – il secondo rappresentante diplomatico in Svizzera. Questa forma di rappresentanza è rimasta sostanzialmente costante nel tempo, con l’eccezione di una pausa di cinque anni sotto la Repubblica Elvetica.  La continuità venne a mancare nel corso del Kulturkampf. Infatti, l’espulsione del vicario apostolico di Ginevra e l’aspra critica di Papa Pio IX nei confronti della Svizzera riportate nella sua enciclica del novembre 1873, portarono il Consiglio federale a constatare che prendendo atto del fatto che [avendo] «il Papa mosso gravi e ripetute accuse evidenti contro le autorità svizzere e le loro risoluzioni, [...] una rappresentanza diplomatica permanente della Santa Sede in Svizzera è diventata inutile». Nel dicembre 1873 il governo decise quindi di interrompere le relazioni (dodis.ch/42009).  La ripresa delle relazioni unilaterali  Per quasi mezzo secolo, la Svizzera non intrattenne relazioni ufficiali con il Vaticano. Fu solo durante la prima guerra mondiale che le questioni umanitarie riavvicinarono la Svizzera neutrale e lo Stato Pontificio. La convergenza di interessi si concretizzò attraverso l’internamento dei prigionieri di guerra malati e feriti (dodis.ch/43395), questa situazione permise un avvicinamento anche a livello politico.     Nel giugno del 1920, il Consiglio federale decise di riprendere le relazioni diplomatiche, ma alla «condizione esplicita che, poiché la Svizzera non aveva praticato la reciprocità in passato, non [avrebbe potuto] praticarla in futuro» (dodis.ch/44597 e dodis.ch/44567). Inoltre, il Consiglio federale avvertì l’inviato papale «che stava entrando in un terreno alquanto difficile e che avrebbe fatto bene a non perseguire una politica di intervento nei nostri affari interni e ad evitare con grande moderazione qualsiasi questione che potesse dare origine a discordie tra cattolici e protestanti o tra gli stessi cattolici» (dodis.ch/44598).  Un avvicinamento alle relazioni bilaterali  Dal 1920, il Vaticano è nuovamente rappresentato ufficialmente in Svizzera da un nunzio apostolico. L’unilateralità delle relazioni fu rigorosamente rispettata anche dopo la Seconda guerra mondiale per paura di «provocare lotte confessionali in alcune zone del nostro paese» (dodis.ch/6680 e dodis.ch/6681). Solo nel 1963 ci furono segni di un cambiamento di opinione (dodis.ch/18831). Tuttavia, il governo federale considerò come prioritaria una revisione totale della Costituzione federale e, insieme ad essa, l’eliminazione degli articoli confessionali eccezionali (interdizione dei gesuiti). Per questo motivo, «passerà ancora del tempo prima che un rappresentante diplomatico sia accreditato presso la Santa Sede», come assicurò il consigliere federale Willy Spühler alla Commissione di politica estera del Consiglio nazionale nel 1968 (dodis.ch/32151).  Normalizzazione delle relazioni  Le previsioni di Spühler si riveleranno corrette. Il Consiglio federale prenderà in considerazione solamente a partire dal 1987 la possibilità di una «normalizzazione graduale» delle relazioni (dodis.ch/57616). La scelta stessa dei termini utilizzati diede luogo a disaccordi. Nel 1988, per esempio, il nunzio si lamentò del fatto che «si parla sempre di ‹normalizzare› le relazioni», mentre esistevano già delle «relazioni diplomatiche normali, che potrebbero però essere ‹perfezionate› con l’istituzione di un’ambasciata svizzera» (dodis.ch/58648). Tuttavia, due anni dopo, lo stesso nunzio descrisse la natura unilaterale delle relazioni come «assurda e superata» (dodis.ch/58647).  La spinta decisiva fu infine data dal «caso Haas», all’inizio degli anni 1990. Le controversie sulla nomina dell’arci-conservatore Wolfgang Haas a vescovo di Coira mostrarono chiaramente le conseguenze del fatto che «la realtà svizzera [fosse] riportata a Roma solo nella percezione del nunzio» (dodis.ch/57567). Il DFAE esaminò in dettaglio diverse opzioni (dodis.ch/56234) e infine presentò al Consiglio federale la proposta di nominare uno dei suoi capi, il riformato Jenö Staehelin, come ambasciatore temporaneo in missione speciale (dodis.ch/57567).  Nel 2004, il Consiglio federale decide di uniformizzare la situazione accreditando nuovamente un ambasciatore svizzero all’estero presso la Curia. Il 1° ottobre 2021 – quasi 31 anni dopo la prima nomina di un ambasciatore in missione speciale – il Consiglio federale ha deciso di istituire un’ambasciata svizzera presso la Santa Sede. «La tensione che ha storicamente prevalso tra il liberalismo dello Stato federale e l’ultramontanismo continua ad esistere in quanto le relazioni diplomatiche non sono prive di controversie e sono tutt’ora caratterizzate da una costante prudenza», riassume il direttore di Dodis, Sacha Zala.
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Il 7 settembre 1991, circa 1’200 invitate e invitati dalla Svizzera e dall’estero si riunirono a Sils per la «Giornata dell’Europa». I discorsi e la cerimonia si svolsero nella tenda Botta, la «parentesi visiva» delle celebrazioni del 700° anniversario. (dodis.ch/60332)

700° anniversario della Confederazione – la dimensione internazionale

Dal 1291 al 1991 – 700 anni della Confederazione – un motivo per festeggiare. Questo è quello che la Svizzera disse a sé stessa alla fine degli anni ‘80. «CH91» era il nome del gigantesco progetto di giubileo che si sarebbe dovuto tenere in concomitanza con un’esposizione nazionale intorno al lago dei Quattro Cantoni – e che fallì clamorosamente nel 1987 a causa del voto nella Svizzera centrale. Il nuovo concetto, più decentralizzato, con il motto «Incontri 1991» e la direzione generale del delegato del Consiglio federale, Marco Solari, dovevano contrastare il gigantismo della prima proposta e dare spazio alla dimensione cosmopolita della Svizzera (dodis.ch/59889). Insieme alla «Festa della Confederazione» e alla «Festa delle quattro culture», la «Festa della solidarietà» doveva far capire che «la Svizzera si considera parte della comunità delle nazioni ed è anche disposta a contribuire alla formazione di questa comunità globale» (dodis.ch/57786).Giornata delle relazioni internazionali  Il segnale di partenza per la dimensione internazionale della trilogia del giubileo fu dato dalla «Giornata delle relazioni internazionali» del 14 giugno 1991 (dodis.ch/C1922). Con il segretario generale dell’ONU, Javier Pérez de Cuéllar, la segretaria generale del Consiglio d’Europa, Catherine Lalumière, e il segretario generale dell’AELS, Georg Reisch, nonché i ministri degli esteri degli Stati vicini, il Consiglio federale ricevette ospiti illustri per colloqui politici nella tenuta di campagna del Lohn (dodis.ch/57698). Altri ospiti invitati dalla Svizzera e dall’estero presero parte alla consecutiva cerimonia a Palazzo federale. Tra gli oratori, era presente il segretario generale dell’ONU, che parlò delle tre «meraviglie» della Svizzera: unita sebbene multiforme, preoccupata della sua indipendenza ma aperta al mondo e, infine, povera di risorse naturali ma ricca (dodis.ch/59057). Il mondo incontra i Grigioni  L’estate fu meno ufficiale, ma tanto più colorata nei Grigioni, il cantone che ospitò l’evento centrale della Festa della solidarietà. Il Festival internazionale ricoprì un ruolo importante per i paesi extraeuropei, che, attraverso numerosi corsi, concerti, progetti di scambio, workshop e una grande festa popolare a Coira, permise incontri personali con persone provenienti da tutto il mondo. Comparato a quest’ultimo, che ebbe un grand successo, il simposio «Chi possiede il mondo?», dedicato al dialogo Nord-Sud, fu un po’ al di sotto delle aspettative (dodis.ch/59059). L’ospite d’onore originariamente previsto dello Zimbabwe, Robert Mugabe, declinò l’invito a causa di altri impegni (dodis.ch/57946).«Fedeltà all’Europa»  Gli «Incontri europei» in Engadina corrisposero infine alla volontà del Consiglio federale di sottolineare in modo particolare le relazioni tra la Svizzera e l’Europa durante la fase decisiva dei negoziati con la CE sul trattato SEE (dodis.ch/57786) e offrirono la possibilità di contribuire alla creazione della nuova Europa guardando oltre le frontiere nazionali (dodis.ch/57787). In particolare, anche le giovani generazioni avrebbero dovuto essere coinvolte nel dialogo: Nell’ambito della settimana dell’incontro «Spiert Aviert» (in retoromancio «Mente aperta»), le e i giovani di tutta Europa si sono scambiati opinioni sul futuro europeo, pensieri che furono ascoltati anche durante la cerimonia ufficiale alla fine della settimana.La Giornata dell’Europa del 7 settembre a Sils-Maria diventò uno degli eventi centrali di tutte le celebrazioni del 700° anniversario (dodis.ch/C1921) e volle essere intesa come «la testimonianza di fedeltà della Svizzera» all’Europa, come fu nuovamente proclamato nel rapporto finale al Consiglio federale (dodis.ch/59883). Tre personalità note, Elisabeth Guigou, Mario Monti e Carl Friedrich von Weizäcker, parlarono della loro visione del futuro dell’Europa, e il presidente Flavio Cotti si rivelò un europeo convinto durante un suo discorso visionario (dodis.ch/57668). L’apparizione di Bronislavas Kuzmickas, vicepresidente del Consiglio di Stato lituano, rappresentava simbolicamente i nuovi legami con l’est del continente. La Giornata dell’Europa è stata quindi un grande successo, offuscato solo dagli «ingorghi sulla strada verso il tendone» causati dall’aristocrazia europea, che era presente in gran numero (dodis.ch/57683). Sfatare i luoghi comuni  Con festeggiamenti di questo genere e numerose manifestazioni organizzate dalle ambasciate svizzere e dalle associazioni svizzere locali, il 700° anniversario fu notato anche all’estero (dodis.ch/55757). Infine, ma non meno importante, la «probabilmente più vasta campagna d’informazione mai organizzata dalla Svizzera all’estero» attirò l’attenzione internazionale. Furono prodotti comunicati stampa, loghi e foto, furono organizzate conferenze stampa e inviati inviti per «promuovere un’immagine d’insieme e lungimirante della Svizzera presso un vasto pubblico mondiale» (dodis.ch/58068). I falsi stereotipi dovevano essere dissipati e la Svizzera presentata come dinamica, aperta e autocritica – una pretesa che non sempre poté essere soddisfatta. L’ambasciatore svizzero in Nigeria lamentò che l’informazione sull’aiuto allo sviluppo svizzero era troppo selettiva, critica e distorta (dodis.ch/58044).«Sdebitamento: una questione di sopravvivenz»  Con la petizione «Sdebitamento: una questione di sopravvivenz» lanciata dalle agenzie di aiuto, la cooperazione tecnica ha trovato un posto di rilievo nell’anno dell’anniversario, che è stato preso come occasione per «dimostrare una solidarietà rafforzata e rinnovata anche verso i membri più deboli della comunità internazionale» (dodis.ch/56084). Un credito quadro di 700 milioni di franchi è stato concesso, da un lato per finanziare misure di sgravio del debito a favore dei paesi in via di sviluppo più poveri e, dall’altro, per finanziare programmi e progetti ambientali di portata mondiale.Allo stesso tempo, innumerevoli altri eventi, mostre, progetti, feste decentralizzate e celebrazioni nello spirito del 700° anniversario riempirono l’anno 1991: i giovani di tutto il mondo furono invitati a danzare dal Cantone di Zurigo alla festa mondiale della gioventù (dodis.ch/57568), la «quinta Svizzera» inaugurò la nuova piazza delle svizzere e degli svizzeri all’estero a Brunnen e nel Parlamento federale i giovani discussero la politica estera svizzera nell’ambito della prima sessione dei giovani (dodis.ch/58000).Anniversario premuroso  Così, alla fine del 1991, l’ufficio del delegato del Consiglio federale tracciò un bilancio positivo dell’anno dell’anniversario: «A tutti i livelli, le celebrazioni per il 700esimo hanno contribuito fortemente a abbattere le frontiere e a ridurre gli antagonismi» (dodis.ch/59883). Tuttavia, i problemi di avviamento del progetto di anniversario, lo shock pubblico per l’affare Fichen scoppiato nel 1989, l’indignazione per la richiesta, percepita come ipocrita, che le persone svizzere attive in campo partecipassero in modo creativo alla celebrazione e il boicottaggio culturale associato sono rimasti indiscussi. Anche il gruppo di progetto del Festival internazionale fu colpito da questa ondata critica, ma si attenne al progetto: in modo che il festival non fosse una celebrazione giubilante, ma «un impulso a riflettere sul ruolo della Svizzera nel mondo» (dodis.ch/59063).
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